Venezia
FESTA DE LA SENSA
 
La solennità della manifestazione comprendeva la celebrazione dello “sposalizio col mare”. Il doge lo eseguiva dal Bucintoro, seguito e attorniato dalle altre barche parate a festa.
 
     
 

ffonda le radici nel glorioso passato della Repubblica di Venezia la Festa della Sensa, una delle manifestazioni pubbliche più significative ed importanti fra le molte celebrate in Laguna per secoli. Ancora oggi, seppure in maniera giocoforza ridotta, viene mantenuta viva dall’amministrazione comunale con il simbolico rituale dello Sposalizio del Mare, officiato dal Sindaco.Sfilata del corteo acqueo in costume, nel bacino di San Marco.
Il nome ricorda quello della suggestiva festività religiosa dell’Ascensione, ma con la liturgia c’entra ben poco la Festa della Sensa veneziana, a parte la coincidenza che proprio il giorno dell’Ascensione, dell’anno Mille, partiva dall’isola di Rialto, dopo aver ricevuto la santa benedizione ed il vessillo di battaglia dalle mani del vescovo di Olivolo, l’armata guidata dal doge Pietro Orseolo II, che si apprestava a compiere la grande impresa contro i pirati slavi che infestavano le acque e l’altra costa dell’Adriatico; un’impresa che consentirà ai dogi veneziani di assumere anche il titolo di Dux Dalmatinorum.
L’obiettivo della spedizione navale di Pietro Orseolo II, che si inseriva in un clima politico internazionale in cui, comunque, gli eredi orientali ed occidentali dell’antica romanità difendevano la propria “libertà” latina dallo straniero slavo, aveva come finalità ultima, ovviamente, la garanzia della sicurezza della navigazione nell’Adriatico, messa in pericolo in quegli anni, soprattutto, dai Croati e dai Narentani.
E a poter compiere quest’opera fondamentale per la civiltà latina (che non per niente pochi anni dopo vedrà il suo completamento con l’autonomo intervento marinaro veneziano sulle coste pugliesi, in difesa della bizantina Bari, invasa dalla furia musulmana dei Saraceni, tra il 1002 e il 1003) non poteva essere, in quel momento storico, altro che Venezia.Regatanti in Canal Grande in uno straordinario scorcio prospettico.
Con le parole retoriche di Giustina Renier Michiel, appassionata autrice ad inizio Ottocento di sei famosi volumi sulla “Origine delle feste veneziane”, infatti, «in quei tempi infelicissimi per la bella Italia, in cui sanguinose guerre la straziavano e desolavano, i soli Veneti isolani godevano della maggior tranquillità, ed erano pacifici navigatori e commercianti; ma ben presto furono essi pure costretti a divenire soldati». A spingere, secondo la tradizione, alle armi i concreti “commercianti” veneziani furono i temibili Narentani, «una popolazione barbara e feroce, dotata dalla natura di una straordinaria forza», che, dopo aver raggiunto le spiagge dell’Adriatico e aver eretto la città di Narenta, «pigliarono sempre maggior animo: penetrarono a mano armata nell’Istria, costrussero vascelli e si diedero ad esercitare la pirateria per tutto il golfo. Non tardarono i nostri a provarne i tristi effetti, e furono obbligati ad armare legni da guerra, onde proteggere il proprio commercio e la navigazione».
Il successo della spedizione orseoliana fu così importante (anche se non definitivo, perché contro i pirati le scaramucce nell’Adriatico in pratica non cessarono mai) che, dopo aver ricevuto l’omaggio e il giuramento dai Dalmati a Ossero, Zara, Veglia e Arbe, il doge, tornato a Venezia, convocò un’Assemblea generale per ragguagliare dell’avvenuto la popolazione. E i Veneziani, resisi conto di essere ora i reggitori di una territorialità che abbracciava tutta la costa orientale dell’Adriatico, vollero – sempre come racconta la Renier Michiel – «che la memoria di un’impresa tanto segnalata, che aveva dato ai Veneziani il dominio del Golfo, come in epoche anteriori l’avevano avuto Pelasgi, Etruschi e Adriesi, si rinnovasse ogni anno con una solenne visita, che il Doge farebbe al mare. Non senza avvedimento fu scelto a tal oggetto il giorno dell’Ascensione giacché in tal dì era uscita dal porto la flotta, che s’era di tanta gloria coperta. D’indi in poi il Doge nel giorno dell’Ascensione montato sopra un vascello distinto e accompagnato dal Vescovo, dai suoi Consiglieri, dai principali membri della nazione, anzi quasi dalla nazione intera, usciva dal porto di Lido, e praticava certe cerimonie adatte a quei tempi di semplicità e di moderazione».
Ma se questo è il primo nucleo sul quale si fonda la Festa della Sensa, a Festosa alzata di remi di una barca riccamente decorata.darne la strutturazione definitiva sarà un altro evento storico di straordinaria importanza, che unirà, nel ricordo pubblico, ad una vittoria militare, un enorme successo diplomatico: la pace, firmata a Venezia nel 1177, che poneva fine alla secolare lotta fra Papato ed Impero. Il mediatore dell’accordo, che porterà all’intesa fra Federico Barbarossa e Papa Alessandro III, fu, infatti, il doge veneziano Sebastiano Ziani. E «il buon esito dell’accennata mediazione e lo splendido trattamento fatto dalla Repubblica all’Imperatore e al Papa, moltissimo accrebbe in Europa la di lei riputazione. Non arrechi, quindi, stupore, se Alessandro pensò di ricompensare alla sua foggia i Veneziani, ricolmandoli d’indulgenze».

 
Papa Alessandro III, infatti, concesse indulgenze a tutti coloro che avessero visitato la Basilica di San Marco negli otto giorni (presto divenuti quindici) dopo la Festa della Sensa: cosa questa che porterà a Venezia folle da tutto il mondo cristiano. E la Repubblica, concreta e “commerciante”, non si lasciò certo sfuggire l’opportunità di organizzare attorno a questo evento religioso un efficientissimo contenitore mercantile, accoppiando alla cerimonia e all’indulgenza religiosa l’istituzione di una Fiera campionaria, che per secoli sarà fra le più ricche e importanti del mondo. Per dare il massimo del risalto alla Fiera de la Sensa venne, infatti, individuata l’area di Piazza San Marco, spazio espositivo ineguagliabilmente prestigioso. E dal 1307 si decise di chiudere le merci, che all’inizio erano esposte in semplici bacheche di legno riparate da tende, all’interno di una specie di recinto, che viene nel tempo abbellito dagli interventi prima del Sansovino (che nel 1534 ne cura il look) e poi dell’architetto Bernardino Maccaruzzi, che nel 1777,Barca con splendidi ornamenti e in primo piano il Leone di San Marco. in modo un po’ pacchiano ma molto efficiente, lo trasforma in un grande edificio ellittico di legno, diviso in quattro settori, a doppio porticato, che ospita nel porticato interno le merci più rare e preziose, al riparo dalle intemperie; mentre nel porticato esterno vengono esposti i prodotti di artigianato minore.
Una costruzione, quella del Maccaruzzi, che sarà ammirata per la praticità del montaggio (si pensi che era possibile allestirla in cinque giorni e smontarla in soli tre), ma che – a causa delle colonne lignee rivestite di carta per simulare il marmo – verrà presa in giro dal gustoso anonimo epigramma popolare: «Archi de legno e colonnami in carta, idee de Roma e povertà de Sparta». Nel 1177, però, Papa Alessandro III, per ringraziare Sebastiano Ziani dell’ottima mediazione col Barbarossa, oltre a ricolmare di doni la città lagunare, secondo la tradizione avrebbe anche consegnato al doge veneziano un anello benedetto, accompagnando il gesto con le seguenti parole: «Ricevilo in pegno della sovranità che Voi ed i successori Vostri avrete perpetuamente sul Mare», e aggiungendo, secondo la testimonianza di Marin Sanudo, anche un invito a nozze: “lo sposasse lo Mare sì come l’omo sposa la dona per esser so signor».
Fu così che alla tradizionale commemorazione della Sensa, fatta della semplice visita e benedizione al mare, si aggiunse anche lo Sposalizio al Mare, vero e proprio atto d’investitura e di possesso dell’Adriatico da parte della Repubblica di Venezia, che vedeva ormai il suo dominio marittimo riconosciuto dalle massime potenze europee dell’epoca. Il rituale dello Sposalizio durante la Festa della Sensa è efficacemente dipinto dalle parole di Giustina Renier Michiel: «quando il vascello Ducale era giunto alla bocca del porto, si volgeva al mare colla poppa, e il Vescovo benediceva l’anello nuziale, e presentavalo al Doge; indi versava un gran vaso di acqua santa nel luogo dove dovea cadere l’anello, e il DogeLe "Bissone": "Cavalli". gettandovelo pronunziava in latino queste parole: Mare noi ti sposiamo in segno del nostro vero e perpetuo dominio». Non si può, ovviamente, a questo punto non ricordare uno dei maggiori protagonisti della cerimonia della Sensa e dello Sposalizio: il mitico Bucintoro, la grande imbarcazione dalla quale il doge lanciava l’anello.
Una grossa galea, agli inizi, poi divenuta nel corso dei secoli la più grande e ricca imbarcazione da cerimonia che abbia solcato le acque veneziane, il cui nome ha un’origine etimologica assai incerta: chi dice che derivi dal Centaurum, l’imbarcazione rituale citata da Virgilio nell’Eneide, che a Venezia si sarebbe costruita doppiamente imponente, quindi Bi-Centaurum; chi pensa che sia invece la storpiatura di Ducentorum, cioè di barca per 200 uomini.
Fatto sta che degli ultimi tre esemplari, realizzati praticamente identici, sappiamo che avevano dimensioni imponenti ed allestimenti sfarzosissimi.Particolare di barca con prua riccamente decorata. Il natante misurava 35 metri di lunghezza, 7 metri e mezzo di larghezza, 8 metri d’altezza; era diviso in due piani, e per governarlo servivano tre ammiragli, 40 marinai e 168 vogatori, scelti fra i più atletici degli arsenalotti, cioè dei lavoratori dell’Arsenale di Venezia.
E sotto il grande baldacchino, rivestito di velluto rosso, allestito al piano superiore con 90 seggi e 48 finestre protette da cristalli e tendaggi di seta,si veniva a creare una grande ed elegante sala.
L’ultimo Bucintoro, purtroppo, dopo la sua ultima uscita festosa, in occasione della Sensa del 1796, subì – con la fine della Repubblica – un’ignominiosa sorte.Dapprima nel gennaio del 1798 i soldati francesi strapparono dall’imbarcazione tutti i preziosi intagli dorati, per bruciarli e ricavarne così oro fuso; alla vista delle volute di fumo che si levavano dall’isola di San Giorgio, i veneziani sgomenti si dice che pronunciassero di bocca in bocca la frase amara: “Bruciano il Bucintoro!”, collegando simbolicamente a quel fuoco il bruciare della loro patria.
Poi il nudo scafo, ribattezzato Prama Hydra, fu armato con quattro cannoni ed utilizzato come batteria galleggiante a difesa del porto di Lido. Infine la demolizione di quel che restava dell’ultimo Bucintoro fu completata, l’anno 1824, dagli Austriaci che lo demolirono all’Arsenale.