l pomeriggio del 17 maggio 1797, il colonnello Foulon, con i soldati di una guarnigione napoleonica, entrò a cavallo in piazza Vescovado per sancire la presa del potere dell’infimo borgo di pescatori. Il giorno prima, il duomo, che si affaccia sulla piazza, aveva grondato lacrime di commozione alle parole del parroco e delle autorità, pronunciate al fatale seppellimento dei gloriosi vessilli di San Marco.
Lo stupore che i francesi lessero sul volto del loro comandante non era provocato dalle note del Te Deum che quel pomeriggio si diffondevano flebili fuori della chiesa. Dentro, al buio, don Domenico Colletta e due chierici intonarono a squarciagola il canto di ringraziamento per consacrare i loro nuovi convincimenti politici. I portoni spalancati permisero alla nenia di investire il drappello di "liberatori", perforando a fatica la densa coltre d’umido che ristagnava perenne tra le navate e il fumo di rosmarino, che la povera curia usava come succedaneo dell’incenso. L’ufficiale, invece, non distolse gli occhi dalle forme eleganti del campanile cilindrico che troneggiava maestoso davanti ai suoi soldati e al duomo. L’armonia della torre campanaria, che in quell’epoca doveva presentarsi abbastanza compromessa dall’incuria, suscitò stupore anche per il confronto che ne veniva con la miserevole condizione degli uomini che l’ufficiale aveva incontrato attraversando il piccolo borgo. Il desiderio di conoscere l’origine di quel campanile fu impulsivo. Quella torre maestosa, come poteva essere simbolo o opera di quella povera gente? Ponendosi quel dilemma il colonnello Foulon, inconsciamente divenne il primo turista straniero a provare un brivido di fronte alla discrepanza di rango che divideva i caorlotti e il loro campanile. Nei secoli successivi, e in particolare ai giorni nostri, accademici di storia e studenti sulla soglia della laurea hanno profuso ogni sforzo per scrollarsi di dosso la "Sindrome di Foulon".
Centinaia di documenti raccolti confermerebbero che Caorle, prima dell’anno 1028, periodo in cui venne iniziata la costruzione del campanile sopra una base romanica preesistente, e nel secolo successivo, quando venne aperto il cantiere del duomo, fosse una cittadina ricca e potente. Venne retta da vescovi e istituzioni democratiche. Gli abitanti, alcune migliaia, prosperavano di commerci con l’Oriente al pari dei Veneziani. Era molto proficua anche l’esportazione verso l’entroterra veneto e friulano. A ciò si rivelarono strategiche le acque profonde dei fiumi Livenza, Lemene e Tagliamento, che permisero ai caorlotti di risalire fino alle località a ridosso delle Alpi. Esistevano cantieri per costruire le "caorline", imbarcazioni a remi agili e veloci, ideali per la distribuzione al dettaglio dei prodotti che giungevano in grosse quantità dalle altre sponde dell’Adriatico e dal Mediterraneo. Le merci, la gran parte, erano derrate di sale. La Serenissima ne ricava dalla sua vendita o dallo smercio nei propri territori dazi onerosi, giustificati dal gran consumo che ne veniva fatto per la conservazione delle carni.

Verso il Nord, la flotta di caorline trasportava vini e sassi da costruzione provenienti dall’Istria; il caffè che arrivava dai porti dello Stato pontificio; spezie con i colori e i profumi dell’Oriente. La gran parte della mercanzia sbarcava a Caorle da galee comandate e condotte da marinai caorlotti o venivano acquistate sui mercati di Venezia. Il luogo delle contrattazioni era situato in un ampio spazio, lastricato di mattoni sistemati a "spina pesce", sul lato sud di piazza Vescovado, sotto l’occhio vigile del podestà, nominato da Venezia. Il nobil homo, dall’alto del balcone del palazzo pretorio, controllava ogni cosa. Tra i suoi compiti, per mandato della Dominante, c’era anche quello di valutare l’andamento e l’entità degli affari che si svolgevano, e riferire al Gran Consiglio. Verso la metà del Duecento, il governo di Venezia, sancì la morte economica di Caorle.

(continua ®)