La spiritualità dell’immagine nella poetica dell’arte
ICONOGRAFIA DELLA FEDE
Le immagini sacre sono un mezzo efficace
per comunicare, commuovere, istruire ed edificare,
trasformandosi in passerelle tra il visibile e l’invisibile,
in grado di avviare lo spettatore all’incontro con Dio.
Iprimi dieci secoli dell’iconografia cristiana, pur nella loro alterna vicenda a favore o contro le immagini, costituiscono un deposito prezioso dal quale anche i secoli seguenti hanno avuto modo di attingere e di ispirarsi. Se osserviamo con attenzione le finalità precipue dell’immagine, possiamo dire che ancora prima di essere solo e soprattutto espressione artistica, essa deve corrispondere al compito e alla funzione di comunicare, mostrare, commuovere, istruire ed edificare.
L’intento principale che possiamo cogliere, come filo conduttore di tutto l’imponente lavoro artistico, che caratterizza la Valle di Non, come altre località, è quello cultuale. «I templi, le immagini sacre, gli arredi sacri, i libri liturgici, gli strumenti religiosi, la produzione plastica, letteraria, musicale, nascono per essere messi al servizio del culto divino. La prima finalità è sempre cultuale» (Marchisano)
L’altro aspetto è quello catechetico-didattico: in altre parole l’insegnamento. Se tutto questo lo leggiamo in determinate epoche culturali, ci accorgiamo che l’immagine era necessaria come una prima alfabetizzazione di gran parte del popolo che non poteva accedere a quelle forme di privilegio, riservato a poche persone come lo studio. Questa carenza di cultura ha trovato modo di essere supplita e integrata dalla funzione comunicativa dell’immagine.
In periodi storici quando il latino era poco comprensibile e la conoscenza della dottrina cristiana e della Sacra Scrittura piuttosto povera e superficiale, l’iconografia ha assolto il compito di illustrare la Bibbia con un linguaggio semplice, e facilmente leggibile anche dagli analfabeti. Le pareti e le vetrate della chiesa sono diventate pagine vive e aperte della Scrittura.
Nel 1313 a Cles, è documentata una Scuola di Grammatica e Retorica. Siamo in un periodo interessante da un punto di vista culturale. Non so quanti potessero accedervi e frequentarla. Comunque essa è segno e presenza di un certo benessere e raffinato gusto culturale magari riservato a un gruppo piuttosto ristretto.
Ma possiamo sempre chiederci, quanti avessero conoscenza della lingua latina così da poter comprendere la celebrazione della Santa Messa e dei sacramenti. Siamo nell’epoca di Dante (1265-1321) e del rifiorire di una nuova lingua. Petrarca (1304-1374) scrive il De Africa in lingua latina, pensando di passare alla storia per quest’opera, senz’altro di grande valore, ma se noi lo ricordiamo oggi è per le Rime in vita e in morte di Laura. Siamo in un periodo particolare per la liturgia. Ormai non si comprende la lingua e il mistero che si celebra, però si vuol vedere. Si corre da una chiesa, avvertiti dalla campana, per conspicere Hostiam, cioè vedere l’elevazione dell’Ostia santa, generando nel fedele la prassi riduttiva di una comunione per visum. Nasce così l’elevazione e un po’ alla volta si fissa quel momento, nell’esposizione del Santissimo per l’adorazione. Questa finisce con il sostituire la partecipazione alla comunione, tanto che il concilio Lateranense IV (1215) dovrà richiamare i fedeli a confessarsi e a comunicarsi almeno una volta all’anno. Nel 1264 viene istituita la festa del Corpus Domini con l’intento di ridestare maggior interesse al sacramento dell’Eucaristia. San Tommaso compone, per incarico di Urbano IV, un preziosissimo Officio ricco di pensiero teologico, ma il basso clero e il popolo sono ancora lontani da un così elevato modo di pensare. Gli avvenimenti della storia della salvezza vengono tradotti in sacre rappresentazioni popolari davanti alle chiese I nuovi ordini religiosi, Francescani e Domenicani cercano di rispondere ai diversi bisogni religiosi dei laici con una predicazione avulsa dalla liturgia della Parola. La pietà popolare viene favorita da nuove pratiche di pietà come la Via crucis, la devozione alla Madonna, la recita del rosario e le devozioni ai santi. Così l’immagine della Madonna e il rapporto di intensa tenerezza verso il bambino, hanno coinvolto il sentimento ancora prima che il pensiero. Verso il secolo XIV le immagini divengono sempre più termine di devozione, e trovano spazio e luogo nelle diverse cappelle che nascono all’interno della chiesa. Esse sono favorite anche dalle corporazioni o movimenti che portano avanti un tipo di spiritualità molte volte slegata da un contesto liturgico. C’è bisogno dunque di catechesi.
Gli affreschi che troviamo nella chiesetta di Maiano (datati in parte prima del Duecento), di San Tommaso a Dres, di San Vigilio al Doss di Pez e in altri luoghi interessanti, dove la “cerchia” dei Baschenis de Averaria per più di due secoli hanno operato, (come a Denno, Mione, Mocenigo, Corte Inferiore, Segonzone, Tres, Nanno, Cunevo, Pavillo Tassullo, Castel Valer ecc.), costituiscono una prima e semplice risposta di stile popolare a una grande domanda di catechesi. Ecco che la pittura è come una forma di scrittura: così afferma San Gregorio Magno «ipsa pictura quasi scriptura»
Se poi leggiamo questa realtà partendo dalla storia della liturgia, vediamo che l’intento iniziale non è stato tanto quello di realizzare una forma estetica, quanto piuttosto quella di individuare un rapporto con la liturgia della Parola e la catechesi.
Ne sono una ricca testimonianza la voce dei Padri. San Basilio (330-379) scrive: «Spesse volte sia gli storici sia i pittori descrivono i trionfi e le vittorie guerresche, gli uni adornandole con le parole, gli altri dipingendole nei quadri; ed entrambi eccitarono molti alla virile fermezza. Come, infatti, la narrazione storica dipinge i fatti con l’essere unita, così la pittura li rappresenta attraverso la riproduzione artistica, insegnando senza parole».
In ogni tempo l’arte sacra ha testimoniato la teologia della fede, e ne conosciamo la storia che recuperiamo dalle incisioni fatte sulle rocce, sui monumenti funebri, sulle tombe e nei templi a livello di tutte le culture ed espressioni religiose e in particolare modo in riferimento all’ambito cristiano, dove l’arte non solo ha impreziosito il luogo o la suppellettile, ma ha aiutato a conservare dalla trascuratezza e dall’incuria gli stessi luoghi. Le testimonianze che ci vengono dalla storia celebrano il ricordo della raffigurazione di Cristo e dei misteri che l’uomo di ogni tempo ha tracciato nel suo pellegrinaggio attraverso il tempo.
In questo ambito l’arte assume una dimensione insospettata; tenta di squarciare il livello del mistero e di far pregustare in anteprima delle piccole suggestioni spirituali. Si può, quindi, parlare di impatto dell’immagine sacra.
«L’iconografia è in tal senso teologia e teofania. È una forma di conoscenza adeguata del sacro per via di sentimento, di intellezione e di rivelazione, dove gli elementi speculativi non disdegnano emotività e sentimento, per risolversi in creazioni originarie di forme intese ad esprimere concretamente la realtà ineffabile del messaggio cristiano. È una forma di linguaggio che rimanda attraverso lo splendore, il disinteresse e l’armonia al desiderio dell’estasi mistica» (Chenis).
Pertanto le rappresentazioni artistiche, opera di mano d’uomo, assumono una portata e una dimensione sacramentale in quanto evidenziano la collaborazione dell’uomo alla creazione divina e la forza redentrice dei segni salvifici. Nel trattare il sacro con forme di bellezza, l’arte si sforza di raggiungere «un livello superiore, e ciò non per vanità ma per ardore religioso, per amore alla gloria di Cristo e di Dio» (Tommaso d’Aquino).
Il cristiano argomenta il discorso della propria fede attraverso la testimonianza delle immagini. L’iconografia a modo suo ha scritto e documenta la storia e il cammino di fede di una comunità
Giovanni Damasceno afferma infatti: «Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede”, tu portalo in chiesa e, presentando la decorazione di cui (l’edificio) è ornato, spiegali la serie dei sacri quadri».
Papa Adriano I (772-795) scrisse più volte per difendere l’uso delle immagini: «Dipingiamo nelle chiese i fatti della storia divina per ricordare le divine opere e per insegnare agli ignoranti... Infatti, ovunque si trova il cristianesimo, là le sacre immagini tuttora sussistono e si onorano da tutti i fedeli, affinché attraverso un’effigie visibile l’anima nostra si elevi al celestiale affetto fino all’invisibile maestà divina... Se volessimo enumerare per ordine tutte le chiese finora fatte erigere dai Pontefici, nostri predecessori, e da essi dotate di mirabili sacre immagini o fatte dipingere con le più diverse figurazioni storiche e come tali venerate, osiamo dire con sincerità apostolica che ci mancherebbe il tempo di contarle e di illustrare le loro costruzioni, decorate con immagini e figure sacre... ».
L’arte in sé, ma in particolare modo la decorazione pittorica risulta complementare al rito, ai segni sacramentali e alla Parola stessa che la chiesa ha ricevuto in consegna da Cristo nei Vangeli. In maniera peculiare l’arte cristiana ha sempre ritenuto che la figura ha un linguaggio più forte della parola. Essa diventa exornatio Verbi, (ornamento della Parola) con immediatezza illuminante e anche in modo meno fuggevole. La dimensione artistica della Scrittura non è scompaginata dal suo messaggio. Tra queste due realtà esiste una reciproca complementarietà così che la Bibbia è divenuta ed è sorgente di arte; e l’arte interprete della Bibbia, in una nuova forma di esegesi, altrettanto valida.
L’arte ha in sé una componente dinamica che manifesta un linguaggio universale leggibile e razionalmente comprensibile, è una vera forma di gnoseologia. Perciò gli affreschi che incontriamo in Val di Non, come ogni altra pittura religiosa e sacra rivelano come abbiamo visto, un aspetto didattico-catechistico, su un fondamento storico-narrativo ma nello stesso tempo si muovono nella direzione di un profondo senso mistagogico- celebrativo che mi introduce nel mistero. Le raffigurazioni pittoriche risultano come passerelle tra il visibile e l’invisibile, tra il basso e l’alto, dal terrestre ci introducono al celeste, stabiliscono un rapporto facile e intuitivo tra l’uomo e il soprannaturale e avviano all’incontro con Dio. In questo senso la pittura è supporto necessario, oltre che utile alla liturgia, perché aiuta a riflettere sulla trascendenza e a dare visibilità al mistero che la liturgia attualizza. Ciò che il Vangelo dice con le parole, la raffigurazione pittorica lo proclama con i colori e ce lo rende presente. Ma mentre la parola mi mette in comunione con Dio nel momento celebrativo, l’immagine favorisce che la permanenza dell’annuncio si prolunghi nel tempo e rimanga come visibilizzazione del mistero.
Per l’arte semplice e popolare che appare nelle nostre chiese i vincoli e i canoni sono molto semplici. Parola e visione devono coincidere e ce lo ricorda, in modo incisivo, un salmo: «Come avevamo udito così abbiamo visto nella città del Signore degli eserciti, nella città del nostro Dio» (Sal 47,9), ed è giusto, allora, che davanti all’incanto degli affreschi ce lo ripetiamo ad alta voce.