Giornalista enogastronomo

Tra memoria e riscoperta

LA TAVOLA TREVIGIANA

Percorsi affascinanti nel mondo della sapiente tradizione e della cultura, 
alla ricerca di sapori perduti, piatti oggi dimenticati e antichi piaceri ritrovati.

 

a cucina di Treviso, come del resto quella dell’intera Marca, rivela, come ha scritto Giuseppe Maffioli, «l’incomparabile ricchezza dei tesori del suo meraviglioso dolce paesaggio di pianure irrigue, di colline festonate di vigneti baciati dal sole, di pendii d’altopiano profumati d’erbe e bacche sugose, immerso nelle profondità tonali dei verdi e degli azzurri, di Giorgione, di Cima, di Tiziano e fissato in immagini immortali che la nostra gente per intuizione amorosa ha saputo trasformare in sapori attingibili». Maffioli scriveva queste cose all’inizio degli anni ’80 o forse assai prima, quando Treviso e le terre d’attorno vivevano appieno la gioiosa riscoperta della propria cucina storica, ricca e inimitabile, popolare e aristocratica assieme. Tutto era iniziato sul finire degli anni ’50, quando proprio 

Ne risultano frutti di serenità e tolleranza che sono tra le nostre virtù migliori. Ciò traspare nella nostra grande arte dei secoli d’oro, da Giorgione a Cima, da Paris Bordon a Lorenzo Lotto». E viene allora da immaginare l’arrivo a Treviso di Ludovico Toeput, il Pozzoserrato, il quale, giunto a Venezia nel 1580, all’età di 30 anni, scelse due anni dopo di vivere a Treviso, aprendo la strada ad altri artisti del centro e nord Europa che sul finire del secolo arrivarono numerosi in città. Fra le sue tante opere ci piace ricordare «La parabola della vanità della ricchezza», acquistata in Inghilterra dalla Fondazione Benetton e che ora è fortunatamente presente nel bello e ricco Museo cittadino, per la gioia di quanti vi entrano. La grande tela illustra una parabola dell’evangelista Luca,  ma intanto mostra una mensa imbandita con

Maffioli ­ già autore di commedie e di testi per la Rai, nonché attore, regista, giornalista e gastronomo molto ascoltato ­ su una brillante idea del giovane Dino De Poli ­ allora amministratore comunale di Treviso, pure lui molto attento alla civiltà della sua terra, anche a quella della tavola ­ diede vita al primo festival della cucina trevigiana. Era, come ripeteva in ogni pubblico incontro un altro grande innamorato di Treviso, Giuseppe Mazzotti, un’occasione preziosa per scoprire le profonde e sane radici d’una cucina che si nutriva nella fertilità del proprio territorio, attingendo a piene mani ai doni del Sile e del Cagnan e ancora a quelli delle aie e degli orti presenti dentro e fuori le mura, ma soprattutto ricca d’una eredità di saperi culinari cui avevano contribuito soprattutto Venezia, ma anche la Mitteleuropa e quanti d’ogni parte del mondo sono arrivati a Treviso nel corso del tempo. Molti di questi viaggiatori ­ scrittori, poeti, pittori, musici, artisti di strada, accademici di vario tipo, mercanti collegati con le piazze commerciali d’Europa e d’Oriente ­ si sono fermati in città e nel suo territorio, scoprendo che la Marca è davvero una terra «gioiosa et amorosa», dove, come ha scritto ancora Giuseppe Maffioli, «la vita di ogni giorno ha saputo adeguarsi alla realtà, l’ha dominata e trasfigurata, illuminandola per una nostra capacità di aderire armoniosamente a tutto ciò che essa ci offre di concreto e di godibile, nell’equilibrio di quel moderato epicureismo nostrano, che prende l’avvio dai limiti di una morale cristiana profondamente acquisita. 

vassoi ripieni di frutta d’ogni tipo, di dolci e confetti rilucenti come perle, pane appena sfornato e tenuto caldo sotto un tovagliolo ed una panciuta bottiglia ripiena di vino rosso. E come fondale la campagna trevigiana, ricca di verde, con carri ricolmi di sacchi di cereali e operai che costruiscono nuovi granai e nuove cantine. 
    Treviso ­ città fra le più operose d’Italia ­ è anche questo, o forse lo era. L’accelerata frenesia che segna pesantemente questi anni di trapasso da un millennio all’altro ha fatto trascurare, se non proprio dimenticare, anche ai trevigiani i veri piaceri della tavola e con essi le tenere dolcezze della campagna. 
    E la cucina trevigiana, allora, non esiste più? Lungi da noi questo pensiero, ma quella sapienzialità tutta trevigiana e quell’arguzia così accattivante e sempre generosa che Gigi Chiereghin, in compagnia dei suoi cittadini sapeva spandere attorno a sé nelle lunghe sere d’estate e d’autunno, tra Piazza dei Signori, Calmaggiore e le altre piazze e le minuscole vie del centro storico, specie se i discorsi vertevano sulla cucina, oggi non esistono proprio più. Non esiste il pigro sostare sotto vecchie insegne d’osteria, pregustando il piacere d’entrarvi e continuare conversazioni cariche d’amicizia e di buon gusto; non esiste più la voglia di fermarsi a lungo nelle calde trattorie cittadine e richiedere un altro piattino di fagioli con la cipolla, o un piattino di nervetti, non c’è più tempo, né, forse, la capacità di troppi trevigiani di saper prolungare o adirittura capire questo inappagabile piacere, in attesa magari di andare

(continua )

 
 
indietro

avanti